Un saggio di Monica Marcasciano sul film di Francesco Maselli

Avventura di un fotografo è un film per la televisione italiana del 1983, diretto e sceneggiato da Francesco Maselli e andato in onda su Rete 3 il 9 aprile 1983 alle ore 22:00 con replica nel pomeriggio del giorno successivo. Il film è parte di un ciclo per la TV dal titolo Dieci Registi Italiani, dieci racconti Italiani: 10 film diretti da 10 registi italiani ispirati a 10 opere letterarie contemporanee.

Tratto dall’omonimo racconto di Italo Calvino e pubblicato nella raccolta Gli amori difficili del 1970, il soggetto di L’avventura di un fotografo appare già nel ’55 sulla rivista «Il Contemporaneo» in forma di articolo saggistico con il titolo La follia del mirino. Il pezzo è una riflessione di Calvino sulla pratica contemporanea del fare fotografie, sull’eterno tentativo umano di fermare l’inarrestabile scorrere della realtà, «perché uno che ha cominciato a far fotografie, non c’è nessuna ragione che si fermi. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo».

A partire da questa prospettiva filosofica, Maselli gira il viaggio esistenziale di un uomo che, inizialmente infastidito dagli eccessi di entusiasmo dei suoi contemporanei verso la moda della fotografia come pratica consumistica di massa, resa possibile da una tecnologia a tutti accessibile, e scettico sulla capacità della stessa di fermare la vita, si apre poi alla possibilità che la fotografia possa almeno interpretarla, la realtà; ma il passo verso la nevrosi di una sovrapposizione tra la propria vita e la fotografia è breve. Il tentativo spasmodico di far coincidere il flusso vitale con la sua riproduzione, e la frustrazione di una coincidenza mai del tutto appagata tra le due, si risolvono nella azione del protagonista di fare a pezzi letteralmente le foto stesse e nel fotografarne poi i frammenti di vita in essi racchiusi, in un gioco di specchi in cui l’unica soluzione esistenziale consiste nel fotografare cumuli di frammenti delle fotografie di una vita.

Il tema è evidentemente di una attualità quasi sconcertante se si pensa al percorso che la pratica fotografica ha fatto dalle polaroid presenti nel film di Maselli fino ai device in nostro possesso oggi e l’ansia, quasi patologica della nostra epoca, di fotografare e pubblicare quasi in contemporanea tutto e ovunque, fino a sostituire l’esperienza di vita con la fotografia della stessa! «La riscrittura del racconto di Calvino è la più originale e la più d’ autore delle 10 che compongono la serie dei Racconti Italiani», si legge su «La Repubblica» di quell’anno, a recensire il ciclo di film, e si rimarca anche la coincidenza autobiografica di Maselli il cui interesse artistico verso la fotografia come veicolo espressivo è pari al cinema.

Maselli sceglie non a caso come set del film la sua stessa abitazione, il suo stesso letto – per l’occasione attrezzato a posizionare la macchina fotografica in punti diversi – fino a fotografare se stesso fuori dal set durante la notte e a decidere, in un corto circuito tra arte e vita, di esporne gli esiti in mostre fotografiche a Parigi e a Roma. Se L’avventura di un fotografo quasi ci inquieta per la modernità del suo soggetto, i suoi 40 anni sono un’occasione imperdibile per ripercorrere i rapporti tra Cinema e Letteratura, riscoprire l’interesse che Calvino riponeva nel Cinema come spettatore e critico e ripensare all’ attualità delle riflessioni di Maselli in risposta ai sempiterni quesiti in tema di politica culturale cinematografica Italiana.

Il modo di fare, di fruire e di promuovere il cinema è evidentemente profondamente cambiato dalla messa in onda televisiva del film dell’ 1983 ma certe domande si ripetono; e se è vero che il tempo cambia le risposte ma non le domande, forse è anche vero che alcune risposte hanno vita eterna.
Perché si va al cinema e perché si fa Cinema? Come si scrive una buona storia da guardare? Qual è il calibro giusto tra assecondare il gusto del pubblico ed indirizzarlo?
In mancanza di soluzioni perfette o definitive, rileggere le risposte che la storia della teoria del cinema ci ha già fornito si conferma buona pratica.  In un indissolubile intreccio tra storia personale e teoria dell’esperienza estetica, Italo Calvino ci dice in Autobiografia di uno spettatore, anno ’73, che il cinema è una esigenza umana di mondi diversi, di storie altre rispetto alla nostra, di esperienze sconosciute fino alla entrata in sala.

«…entrato nel cinema alle quattro o alle cinque, all’uscirne mi colpiva il senso del passare del tempo, il contrasto tra due dimensioni temporali diverse, dentro e fuori del film. Ero entrato in piena luce e ritrovavo fuori il buio, le vie illuminate che prolungavano il bianco-e-nero dello schermo. Il buio un po’ attutiva la discontinuità tra i due mondi e un po’ l’accentuava, perché marcava il passaggio di quelle due ore che non avevo vissuto, inghiottito in una sospensione del tempo, o nella durata d’una vita immaginaria, o nel salto all’indietro nei secoli».

E la lettura di un testo letterario non è altrettanto una occasione per vivere altri possibili mondi ed esistenze? Cosa differenzia quindi l’esperienza della letteratura da quella del cinema?
È lo stesso calvino a rispondere nel 1953:

«Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo. Il fatto caratteristico del cinema nella nostra società è il dover tener conto di questo pubblico incommensurabilmente più vasto ed eterogeneo di quello della letteratura: un pubblico di milioni in cui le benemerite migliaia di lettori di libri esistenti in Italia annegano come gocce d’acqua in mare».

Oggi al cinema forse mangiare è ancora possibile, ma solo per consentire ad alcune sale di pareggiare i conti (la divisione in due tempi è un escamotage per vendita di generi di ristoro) ma l’etichetta di come si sta in sala cinematografica non è più l’immagine che ci rimanda Calvino… che somiglia più a quella di una proiezione pubblica di una partita di calcio ai giorni nostri. Eppure l’esperienza collettiva della sala cinematografica, valorizzata da Calvino come tratto distintivo del cinema rispetto alla esperienza solitaria della letteratura (e potremmo anche aggiungere della esperienza individuale dello streaming) è ancora oggi una tra tante altre possibilità di fruire un film o di promuoverlo. Qualcuno la da per morta, la definisce anacronistica: la Sala oggi è in crisi spiegano gli analisti, leggendo i dati di affluenza e di abitudini di «consumo» di film. I più disponibili ad aprirsi a una prospettiva di politica culturale, sostengono invece che la sala necessiti piuttosto di un ripensamento della sua funzione, nonché della sua gestione. Anche la «morte del cinema» è un mantra che si ripete con regolare ciclicità fin dal 1985 quando i Lumiere ce lo regalarono con una nota: «un’invenzione senza futuro».

La vitalità dei festival cinematografici o delle rinate rassegne in arene all’aperto, dovrebbero farci riflettere sulla rilevanza del rito collettivo nella fruizione di un film; e potremmo spingerci fino alle teorie più recenti dell’Innovazione Culturale e del Welfare della Cultura che, nella fruizione collegiale, intravvedono la chiave per sanare certe derive di una società sempre più atomizzata. Invece il dibattito sul rapporto tra letteratura e cinema è più vivo che mai e le contaminazioni tra le due arti da quel ’83 de L’avventura di un fotografo si sono aperte alle più disparate sperimentazioni.
E quante ancora ne vedremo alla luce della presunta minaccia della Intelligenza Artificiale di soppiantare la professione di sceneggiatore!

«A me il cinema quando somiglia alla letteratura da fastidio; e la letteratura quando somiglia al cinema anche […]. Il nuovo cinema italiano con la letteratura contemporanea ha qualcosa di più che un terreno in comune: i nuovi cineasti e i nuovi letterati sono per lo più giovani delle stesse covate, con gusti, educazione, letture in comune […] ed è un fatto che io mi diverta meno. […] Non un cinema che sia solo espressione di un movimento culturale ma di esigenze e gusti del pubblico in un rapporto dialettico tra autore e spettatore. Film che non riflettano movimenti intellettuali ma che consentano al politico, allo scrittore e a tutto il pubblico di prendere coscienza di se stesso», scriveva Calvino nel ’53. Forse si sarebbe divertito di più ai giorni nostri in cui le scuole di scrittura per il cinema si moltiplicano e registi e autori di cinema hanno ambiti di provenienza e formazione dei più svariati.
All’uscita nell’83 de Avventura di un fotografo Cecco Maselli racconta:

«Un giorno Calvino mi ha confessato al telefono che il fatto di tradurre in cinema un suo scritto non era un problema che lo turbasse particolarmente: Mi piace molto il cinema e mi piace che un film sia bello come film e come tali funzioni».

E ancora Maselli in un intervento nel dibattito Cinema Letteratura tenutosi a Saint-Vincent, 1-5 marzo, per la presentazione di Dieci registi italiani, dieci racconti italiani:

«Realizzare per immagini un testo letterario è evidentemente scrivere un altro testo. Che, com’è naturale, tanto più avrà valore quanto più risulterà intimamente motivato, intuito, cioè inventato. Non è affatto paradossale allora dedurne che il maggiore rispetto di un autore cinematografico verso il testo scritto è là dove sia stato capace di reinventarlo. Si sia posto cioè nella condizione di più marcata libertà e autonomia, sia sfuggito a ogni remora o tentazione traspostivi».

Una vicinanza di vedute tra i due intellettuali nel ribadire che sono terminati i tempi in cui il mondo letterario guardava al cinema con senso di superiorità e che la stagione di un confronto aperto tra i due mondi è aperto e fecondo per soluzioni ancora sconosciute. Probabilmente oggi l’iniziativa di 10 registi italiani, 10 racconti italiani , prodotto dalla Rete 3 insieme con Svizzera italiana, Austria e Francia, non riscuoterebbe più il favore produttivo dell’epoca; ma riletto con le parole si di Maselli di quegli anni, si trattò di un una operazione produttiva di «riqualificazione del prodotto audiovisivo […]. Lo scopo è quello di proporre delle opere originali […] legate culturalmente a un retroterra che è la letteratura contemporanea italiana».

È questa la strada che Maselli nell’anno di uscita di Avventura di un fotografo ritiene vada percorsa affinché il cinema Italiano ed europeo possano farsi spazio nel mercato internazionale: originalità, differenziazione e specificità culturale: «La strada non è quella di corrispondere alla domanda rilevabile attraverso il marketing, ma nel promuovere una domanda per così dire potenziale, latente». Il problema si polarizza: da un lato le ricerche di mercato sul pubblico consumatore e l’adeguamento ai gusti rilevati, dal dall’altro la messa in moto di meccanismi intellettuali che stimolino l’originalità e l’indipendenza col sostegno di un servizio pubblico come la Rai e dello Stato tramite il Ministero. 10 registi, 10 racconti vuole percorrere la seconda strada, prosegue Maselli, e per questo ritiene l’operazione produttiva valida e lungimirante rispetto alle specificità della industria cinematografica produttiva Italiana.

«A noi manca la base professionale a cominciare dagli sceneggiatori per poter fare concorrenza al modello industriale americano nell’ambito del quale le idee nascono in funzione di un meccanismo perfetto […] dico, non scherziamo, qualsiasi ipotesi di adeguamento e quindi di rincorsa, sarebbe non solo sbagliato ma anche perdente […] Rete 3 tv ha puntato con questa operazione su un genere nostrano a torto dimenticato, il racconto, inventando un nuovo genere di spettacolo, il film breve».

Specificità, differenziazione e intervento pubblico sarebbero quindi la chiave per ridare qualità al prodotto cinematografico. Oggi forse con una terminologia più «europea» parleremmo di «eccezione culturale» rispetto al libero mercato, eccezione poi sostituita da «diversità culturale» per alleggerirla dalla connotazione di resistenza protezionistica. D’altra parte il dibattito sulla compatibilità tra differenziazione culturale degli stati nazionali e divieto di aiuti pubblici, era già in corso negli anni ’80 e la ricerca dell’equilibrio tra l’integrazione del mercato e la funzione protettiva delle misure nazionali è ancora oggi un tema aperto per la sua complessità intellettuale e legale e per l’instabilità velocità con cui l’industria e la tecnologia cambia.