28/07/2021

I nostri primi 18 anni

di Gaia Furrer

Le Giornate degli Autori compiono 18 anni. Con l'età adulta arriva una nuova, embrionale consapevolezza. È un anno di trasformazioni e nuove responsabilità, di distacchi e promesse a venire, di affrancamento dai modelli esistenti e ricerca di una voce propria. È l'anno dei primi bilanci, delle prime fragili o radicali scelte di campo, dei corpi in mutazione. È l'anno in cui ci si domanda quale sia il senso di tutto. Ed è proprio questa domanda che, al termine del processo di selezione, ci è venuta da attribuire, come una chiave di lettura sottotraccia, ai registi dei film scelti.

Le autrici e gli autori dei film in concorso ci immergono in storie i cui protagonisti non fanno che chiedersi, più o meno esplicitamente: Chi sono? Mi riconosco in quello che credo di essere? Sono a mio agio con la vita che ho scelto?  La questione dell'identità è centrale in tutti i film della selezione. Ciascuno dei dodici autori che hanno firmato i dieci film in concorso (due le co-regie) ci ha teso la mano per accompagnarci in un viaggio alla ricerca di sé.

Incontriamo una Virginie Efira in stato di grazia che interpreta una donna dalla doppia identità in un thriller hitchcockiano, una sorta di Vertigo visto dal punto di vista femminile (Madeleine Collins, terzo lungometraggio del francese Antoine Barraud); due giovani amanti che vagano per le strade deserte di una città cinese in pieno lockdown cercando di reinventarsi al meglio nel tentativo ludico e liberatorio di non subire il peso della realtà (Shen kong, primo film di Chen Guan); una sound-designer (interpretata dalla bravissima Marta Nieto, vincitrice come migliore attrice a Orizzonti nel film Madre di Rodrigo Sorogoyen) che, colpita da una misteriosa malattia neuro-acustica, è costretta a riconsiderare tutta la sua vita (Tres del catalano Juanjo Giménez, vincitore di una Palma d'oro a Cannes e in cinquina agli Oscar 2017 con il corto Timecode); un poliziotto che trova un amore inaspettato, in un melodramma queer che connette implicitamente l'identità maschile tossica al presente del Brasile di Bolsonaro (Deserto particular di Aly Muritiba); una ragazza confinata in un centro di riabilitazione per tossicodipendenti che diventa luogo deputato all'osservazione delle relazioni di potere che si instaurano all'interno di un gruppo (il rumeno Imaculat di Monica Stan e George Chiper-Lillemark); l'elaborazione di un lutto indicibile, l'amicizia tra donne come base concreta dalla quale ripartire, il realismo magico come catalizzatore di emozioni che altrimenti finirebbero per sopraffare i due protagonisti (l'argentino Piedra noche di Iván Fund);  una giovane donna che, mentre assiste il padre morente, intraprende un viaggio nella memoria della propria vita, in uno scambio continuo tra passato e presente (il polacco Anatomia, debutto di Ola Jankowska).

Infine, incontrerete tre personaggi che in modi diversi vivono a cavallo tra due mondi e che sono alla perenne ricerca della loro identità, oscillando tra senso di appartenenza e di estraneità: Adnan, uomo smarrito, straniero nel suo mondo, incapace di sentirsi in sintonia con chi gli è accanto, è il protagonista del primo lungometraggio girato sulle Alture del Golan, territorio siriano occupato da Israele dal 1967 (Al garib di Ameer Fakher Eldin); quando il legame tra due sorelle si spezza, una bambina può trasformarsi in qualcun altro nel nome dell'appartenenza e della resistenza (Tu me ressembles, debutto alla regia della stimata ex giornalista egiziana Dina Amer, i cui produttori esecutivi sono Spike Lee e Spike Jonze); e infine Jamila, giovanissima protagonista del nostro unico titolo italiano in competizione, un'adolescente originaria del Marocco trapiantata vicino a Napoli sempre in bilico tra la ricerca del proprio posto nel mondo e il soccombere di fronte alle difficoltà, che vediamo letteralmente crescere davanti ai nostri occhi come un personaggio di Linklater, tra documentario e finzione (Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, noti per il pluripremiato documentario Butterfly).

Il tema della ricerca di un senso, del cinema come memoria privata e collettiva, della relazione tra passato e presente, è alla base dei tre documentari fuori concorso. Bianca Stigter, storica e critica culturale olandese, esamina un brevissimo filmato amatoriale girato nel 1938, unica testimonianza filmata di un villaggio ebreo polacco che è stato sterminato durante la seconda guerra mondiale, regalandoci un film sul significato delle immagini, sulla possibilità di ricostruire una storia e un'esistenza scomparsa (Three minutes. A Lenthening, narrato da Helena Bonham Carter e prodotto da Steve McQueen). La regista franco-israeliana Michale Boganim torna a Venezia dieci anni dopo La terre outragée con un personalissimo road movie che affronta un tabù che affligge la società israeliana: la discriminazione sistematica che subiscono gli ebrei provenienti dai paesi arabi al loro arrivo nella Terra Promessa (Mizrahim, Les oubliés de la terre promise).

E dopo il Premio al Miglior Film di Orizzonti per Liberami nel 2016, siamo felici di ritrovare a Venezia anche Federica Di Giacomo che con Il palazzo ci offre un ritratto struggente e intenso di una comunità di amici che, come in una versione documentaria de Il grande freddo, si ritrova insieme molti anni dopo per celebrare la vita e la morte prematura dell'amico più emblematico del gruppo.

Tra gli Eventi speciali fuori concorso, invece, tre titoli italiani che si confrontano con la musica, il teatro e le altre arti. Senza fine è un ritratto, un omaggio ma soprattutto la ricerca, come dice la regista Elisa Fuksas, «della giusta distanza per raccontare Ornella Vanoni, non la vita di Ornella Vanoni ma la rivelazione della sua intimità esibita». Il silenzio grande è il terzo film da regista di Alessandro Gassman, tratto dall'omonimo testo teatrale di Maurizio De Giovanni in cui un bravissimo Massimiliano Gallo raggiunge l'amara consapevolezza che vivere non significa essere vivi. Infine Lovely Boy, storia dell'altalena di successi e insuccessi di un trapper romano (interpretato magistralmente da Andrea Carpenzano), «una classica parabola di caduta e rinascita che racconta la fatica che crescere comporta sempre, a qualunque età, e le ferite che ci si porta dentro anche quando si è diventati, faticosamente, adulti». Diretto da Francesco Lettieri, regista cult della scena musicale indie italiana, Lovely Boy è il film di chiusura della selezione ufficiale; siamo convinti che non avremmo potuto scegliere titolo più adatto per concludere questo primo anno da "maggiorenni" delle Giornate degli Autori!