«L'uso della fantasia dei carcerati in isolamento, come tecnica di sopravvivenza, ha catturato la mia attenzione e ha influenzato in modo decisivo la storia di Mafak. Anche se i sintomi più acuti tendono a calare quando si torna negli spazi condivisi, molti detenuti subiscono danni permanenti che si manifestano con l'intolleranza alle relazioni sociali. Vi sono dei prigionieri che sviluppano una dipendenza così forte nei confronti della routine detentiva, da perdere del tutto la propria autonomia. Al punto che qualcuno cerca di tornare in carcere. Questa eterna attesa senza speranza pervade la psiche palestinese. Tutto ciò ha come esito l'incapacità di definire se stessi senza un occupante e di organizzarsi e vivere senza restrizioni. Mafak è ambientato nel conflitto israelo-palestinese, ma fa riferimento a una narrazione più universale che riguarda la prigionia, la tortura e la lotta contro la propria immagine e il riflesso che produce». [Bassam Jarbawi]
Bassam Jarbawi inizia a lavorare come fotografo durante la seconda Intifada palestinese. Si laurea in Comunicazione e Scienze Politiche presso il Macalester College, e ottiene un master in Sceneggiatura e Regia alla Columbia University di New York. Il suo cortometraggio Roos Djaj è presentato la Festival di New York e proiettato al Sundance. Con questa prima regia vince numerosi premi. Dopo l'università, lavora a New York nel campo della distribuzione digitale e a Dubai in quello produttivo, per poi trasferirsi a Ramallah dove fonda la Rimsh Film con la quale produce numerosi cortometraggi e documentari, tra cui il recente vincitore di Panorama alla Berlinale, Istiyad Ashbah (Ghost Hunting) di Raed Andoni. Mafak è la sua opera prima.